PARLIAMO DI COMUNICAZIONE il conflitto dentro di noi

Il conflitto dentro di noi

Vi riporto un articolo che ho trovato in www.unisi.it  (università di Siena)
di Enrico Cheli che, ha scritto un libro dal titolo “La comunicazione come
antidoto ai conflitti”
I cattivi rapporti con gli altri sono anche il riflesso di cattivi rapporti
con noi stessi.
Secondo alcune teorie di psicologia del profondo, la personalità non va
vista come un’entità unitaria, ma piuttosto come un insieme di
sub-personalità, ciascuna delle quali desidera il soddisfacimento dei suoi
specifici bisogni. Alcune di queste sub-personalità sono ben viste dalla
nostra cultura e società e quindi tendiamo fin da bambini a identificarci
con esse, agendole alla luce del sole: è il caso, ad esempio, di aspetti
quali l’altruismo, la razionalità, l’autocontrollo, la disponibilità verso
l’altro etc. Altre sub-personalità invece vengono giudicate negativamente
dalla società e dunque anche dall’individuo, che tende a rinnegarle,
esiliandole nell’inconscio – si pensi all’egoismo, alla sensualità,
all’amore per l’avventura, al bisogno di indipendenza, alla timidezza o
qualunque altro aspetto ritenuto deprecabile dall’ambito familiare e
culturale in cui siamo cresciuti o non appropriato al sesso dell’individuo
(ad es. la vulnerabilità, per l’uomo o la determinazione per la donna).
Ogni volta che scegliamo – ed è una scelta che si ripresenta più volte nella
vita: in famiglia, a scuola, con gli amici, sul lavoro – reprimiamo una
parte di noi, dicendogli in sostanza: “tu sei meno importante dell’altra
parte, dell’altro bisogno”, e così facendo la releghiamo nell’inconscio. Ciò
determina conseguenze molto simili a quelle evidenziate, a livello
macrosociale, dalla teoria del conflitto sociale: così come avviene per gli
individui e le classi prevaricate, le sub-personalità che rinneghiamo e
releghiamo nell’inconscio non ci stanno a farsi tagliare fuori e faranno di
tutto per ottenere attenzione e soddisfazione: sobilleranno, saboteranno,
semineranno zizzania, insomma fomenteranno il conflitto dentro di noi e, per
riflesso, anche fuori di noi. Proveremo antipatia e repulsione per qualcuno
perché in realtà ci ricorderà – magari in eccesso – parti di noi che abbiamo
chiuso nella “prigione” dell’inconcio; combatteremo con nemici esterni ma in
realtà saremo in guerra con noi stessi.
I lati ombra non sono negativi in assoluto ma solo fino a quando vengono
ritenuti tali e confinati nell’inconscio; al contrario, se si ha il coraggio
di prenderne coscienza e di dialogare con essi, è possibile trasformarli da
elementi negativi in risorse altamente positive. A tal fine è necessario
impegnarsi in un cammino di autoconoscenza, e uno dei percorsi più efficaci
per prendere coscienza di tali lati è proprio la relazione. Uno dei doni più
belli che ci offrono le relazioni con altre persone è appunto la possibilità
di recuperare i nostri sé negati: attraverso un continuo e consapevole
confronto con l’altro compiamo un viaggio nelle profondità del nostro
essere. Questo non solo si traduce in un vissuto più soddisfacente nella
relazione ma anche in una accresciuta conoscenza di noi stessi e in un più
alto livello di realizzazione personale. Quanti più sé rinnegati
contatteremo, tanto più ricche e complete saranno le nostre relazioni e la
nostra vita.
Se imparassimo ad accettare la globalità di ciò che siamo e non solo alcune
parti, sarebbe assai più facile accettare i diversi da noi; se sapessimo
conciliare creativamente i nostri diversi bisogni invece di accettarne solo
metà e rinnegare l’altra metà, saremmo anche più in grado di negoziare con
equità con altri individui, classi sociali, popoli o stati, invece di
considerare le nostre esigenze più importanti delle loro e liquidarli con
poche briciole e molta arroganza.
La radice del problema è dunque anche dentro di noi, ma sarebbe
semplicistico ridurre tutto alla sola dinamica intrapsichica. Difatti, il
conflitto interiore è collegato a sua volta a distorsioni e ottusità
culturali: in primis il considerare valori solo certi bisogni e qualità
umane, e disvalori tutti gli altri. E’ questa dicotomia che porta poi ad
accettare di noi stessi solo quella metà che corrisponde ai valori della
nostra cultura di appartenenza e a rinnegare l’altra metà. Ma siccome
esistono culture diverse dalla nostra, ecco che alcuni popoli o individui
manifestano apertamente quei tratti che per noi sono invece tabù, e noi
facciamo lo stesso verso di loro, suscitando reciproco rifiuto e ostilità.
Vi è una diffusa credenza in quasi tutte le culture del pianeta che porta a
vedere la diversità come inevitabile fonte di antagonismo; si ritiene cioè
che tra due posizioni o punti di vista o soggetti diversi debba esserci una
competizione o uno scontro che decida il prevalere di uno solo dei due.
Questo modo di vedere è spesso adottato anche dai media, e purtroppo anche
enfatizzato, specie nel campo del giornalismo, il che non fa che
rinforzarlo, aumentando, invece di ridurre, la conflittualità collettiva. Si
tratta, come sosterrò, di un pregiudizio, ma talmente radicato da risultare
una realtà oggettiva e apparentemente immutabile.
In realtà la diversità può essere vista anche in altro modo, non
antagonistico ma anzi costruttivo, poiché è proprio grazie alla diversità
che esiste il nostro mondo, fisico, psichico e sociale. Tutti i fenomeni, da
quelli cosmici a quelli della vita biologica e sociale fino a quelli
sub-atomici esistono proprio grazie ad un gioco di diversità, di polarità
opposte-complementari: può trattarsi di un flusso tra poli opposti o con
diverso potenziale, come nei fenomeni elettrici oppure una alternanza tra
poli (notte-giorno, inspirazione-espirazione, contrazione-rilassamento
etc.); o ancora una interazione tra forze “opposte” (gravitazione vs. moto
orbitale, repulsione elettromagnetica vs. attrazione nucleare forte etc.).
Perfino la struttura stessa della materia risulta imperniata sul gioco di
poli opposti, come protoni e elettroni. Negli organismi viventi, il
flusso/gioco continuo tra polarità opposte si può osservare nell’alternanza
tra inspirazione ed espirazione, tra veglia e sonno, tra vita e morte; si
pensi come ulteriore esempio al funzionamento dell’apparato muscolare
dell’uomo (e a quello di qualunque animale), che lavora sempre per coppie o
gruppi di muscoli tra loro opposti eppure cooperativi, in cui un gruppo
funge da agonista e l’altro da antagonista, e viceversa[3]. Molti altri
esempi potremmo fare, ma già da quanto detto si evidenzia che poli opposti
non vuol dire necessariamente antagonisti, anzi semmai complementari: gli
elettroni sono necessari alla materia non meno dei protoni, così come le
donne sono necessarie per la specie umana non meno degli uomini. L’universo,
la vita, la materia esistono grazie al flusso e alla dinamica prodotta da
opposizioni cooperative tendenti a un equilibrio[4]
Dunque, se si vuole davvero pervenire ad una più ampia visione della realtà,
è necessario liberarsi dal pregiudizio che “diversità” voglia dire
necessariamente e solamente antagonismo e conflitto.
Il concetto di opposti complementari è basilare in una visione
processuale/ondulatoria della realtà come quella proposta dai modelli ad
impostazione olistica, mentre non è compatibile con il paradigma dominante
nella scienza occidentale, che lo vede come un paradosso [5].
C’è poi un ulteriore pregiudizio culturale, connesso a quello appena
illustrato, che contribuisce ad aggravare il problema: la credenza che si
possano soddisfare i propri bisogni solo penalizzando qualcun altro. Questo
modo di vedere è stato definito dalla “teoria dei giochi” come gioco a somma
zero: un gioco, cioè, dove la posta è limitata e non è sufficiente per
soddisfare le esigenze di tutti i soggetti coinvolti (ad es. due naufraghi
che si contendono un unico giubbotto di salvataggio o due tribù che lottano
per un unico lembo di terra fertile, insufficiente per i fabbisogni di
entrambe)[6]. Per millenni i rapporti sociali, ad ogni livello, si sono
basati ciecamente su questo assunto della competizione per risorse limitate
e quindi sulla legge del più forte. Solo da poco stiamo scoprendo che in
gran parte delle relazioni sociali non solo si può vincere entrambi, ma
addirittura si vince di più se si vince tutti. Le relazioni di coppia o
familiari, quelle tra insegnanti-allievi, medico-paziente,
imprenditore-lavoratore e molte altre seguono appunto le leggi di questo
secondo genere di gioco, definito a somma positiva.
Il gioco a somma zero è caratterizzato da una accesa competizione, in quanto
uno vince (+1) ciò che l’altro perde (-1), da cui +1 -1 = 0. Nei giochi a
somma positiva invece, al guadagno di uno non deve necessariamente
corrispondere la perdita per l’altro, anzi, il guadagno è maggiore se
l’altro
guadagna a sua volta (es: +2, +2 = +4). Si prenda ad esempio la relazione
insegnante-allievo: è evidente che più l’allievo apprende con profitto, più
l’insegnante è appagato (cioè guadagna), e viceversa, più l’insegnante è
gratificato, meglio insegnerà e più positivamente si porrà nei confronti
della classe, con conseguenze positive (guadagno) anche per l’allievo. Voler
affrontare una relazione del genere secondo un modello competitivo “a somma
zero” rappresenta, come è ovvio, un’assurdità, comportando per entrambi i
soggetti solo mancati guadagni. Dobbiamo prendere coscienza che gran parte
dei nostri obbiettivi – come individui e come gruppi e popoli – non sono
affatto antagonistici a quelli altrui ma possono anzi realizzarsi di più e
meglio se collaboriamo.
I conflitti possono spuntare prima o poi in ogni relazione, sia essa tra
persone, gruppi, organizzazioni o stati, ma non è detto che l’unica via
d’uscita sia lo scontro. Il problema è che nessuno ci ha mai insegnato ad
impostare in modi sani e costruttivi i nostri rapporti con gli altri e siamo
costretti ad arrangiarci da autodidatti. Impariamo a parlare e a scrivere ma
non ad ascoltare e comprendere realmente l’altro in quanto diverso da noi.
Ci viene insegnata una storia umana fatta di guerre ma non ci viene detto
niente su come poterle evitare. Riceviamo una formazione professionale ma
nessuna formazione relazionale per prepararci ai rapporti che avremo con i
colleghi e con i superiori, rapporti che pure incideranno in modo
determinante sulla nostra soddisfazione o insoddisfazione, sulla
gratificazione o frustrazione che ricaveremo dal lavoro e quindi anche sul
nostro rendimento. Oggi si affronta perfino l’educazione sessuale, ma niente
viene fatto per una educazione relazionale (e la maggior parte dei problemi
di coppia e delle separazioni dipende proprio da problemi relazionali, non
sessuali). Insomma, possiamo anche definirci una civiltà tecnologicamente
avanzata ma siamo, per ora almeno, tutt’altro che avanzati sul piano dei
rapporti con gli altri.

Continua l’ articolo che ho trovato in www.unisi.it  (università di Siena)
di Enrico Cheli che, ha scritto un libro dal titolo
“La comunicazione come antidoto ai conflitti”

Come ogni altra malattia – e la guerra è sicuramente una malattia, la più
nefasta e persistente che affligga l’umanità – essa va affrontata alla
radice, altrimenti, curando i sintomi, la malattia sparisce per un po’ ma
prima o poi riaffiora con rinnovata virulenza, tant’è che qualcuno ebbe a
definire la pace come la pausa di riposo e riorganizzazione necessaria a
prepararsi per una nuova guerra. Rimanendo in tema di massime, vorrei invece
parafrasarne una orientale, più positiva, che recita pressappoco così:
Se vuoi la pace nel mondo devi mettere pace nel tuo paese
Se vuoi pace nel tuo paese devi mettere pace nelle città.
Se vuoi pace nelle città devi mettere pace nelle famiglie.
Se vuoi pace nella tua famiglia devi mettere pace in te stesso.

Dunque, per costruire la pace bisogna agire su molteplici piani,
comprendendo e conciliando i conflitti interiori, superando limitazioni e
cecità culturali e poi imparando a relazionarsi equamente con le altre
persone, ad accettare le differenze, a superare l’egocentrismo e
l’etnocentrismo, ad affrontare costruttivamente i conflitti che
inevitabilmente si creano tra diverse personalità, diversi interessi,
diverse culture.
Può sembrare un percorso lungo ma non ci sono scorciatoie, perché se non
cambieremo i nostri schemi individuali e culturali non sarà possibile uscire
dalla spirale perversa della guerra: potrà trattarsi di guerre vere e
proprie, o di guerriglie come quelle domenicali negli stadi, ma
periodicamente ci sarà bisogno di sfogare l’aggressività di popolazioni
composte da persone e classi sociali per lo più insoddisfatte e arrabbiate.
La rabbia non può essere repressa all’infinito e prima o poi deve trovare
uno sfogo; il problema quindi non si può risolvere reprimendola ma fornendo
alle persone valide alternative per prevenirla o canalizzarla in positivo,
in primo luogo imparando ad affrontare in modo più costruttivo e
soddisfacente le proprie relazioni con gli altri, siano essi superiori,
colleghi o familiari.
Come si è visto, molti sono i fattori in gioco e tra loro variamente
interconnessi, pertanto è sterile lavorare su un solo livello e si richiede
piuttosto un approccio di tipo olistico che nasca da una vasta
collaborazione interdisciplinare nell’ambito delle scienze umane e sociali.
Oggi non solo sono note le cause e le dinamiche dei conflitti interpersonali
ma è anche possibile, in certa misura, facilitare il passaggio da uno
scontro distruttivo ad un confronto costruttivo. Negli ultimi decenni sono
state messe a punto valide tecniche di mediazione tra i diversi punti di
vista, di negoziazione dei diversi interessi, di “sfogo” costruttivo del
risentimento e dell’aggressività, che possono portare in molti casi a una
risoluzione pacifica dei conflitti e a una prevenzione degli stessi. Queste
conoscenze e queste tecniche (di cui si parla più estesamente nella parte II
di questo libro) sono purtroppo poco note al grande pubblico e perfino alla
maggior parte degli studiosi ed addetti ai lavori, ma rappresentano un
patrimonio di grande valore che può essere proficuamente impiegato sia per
iniziative di sensibilizzazione e educazione su vasta scala, sia per
interventi più circoscritti, volti a formare personale altamente
specializzato da impiegare poi in ruoli strategici. Tali iniziative
dovrebbero rivolgersi non solo ai paesi occidentali (il che comunque sarebbe
già molto) ma anche ad altri paesi, perché il cambiamento dovrebbe prima o
poi riguardare l’intero pianeta. Tuttavia non possiamo aspettare che qualcun
altro faccia il primo passo: dobbiamo dare l’esempio noi occidentali –
magari addirittura noi italiani – e avviare seri interventi di educazione
relazionale e di crescita culturale per imprimere un balzo evolutivo agli
individui e alle collettività.
Si spendono ogni anno miliardi e miliardi di Euro per opere pubbliche
materiali: è adesso il caso di investire seriamente anche su un bene
immateriale ma essenziale come la pace. Ne abbiamo a sufficienza di parole e
buoni propositi che lasciano il tempo che trovano: sono necessarie
iniziative concrete, e con opportuni finanziamenti e fattiva e “pacifica”
collaborazione tra studiosi di campi disciplinari diversi si potrebbero
avviare progetti pilota che poi potrebbero essere perfezionati e diffusi su
vasta scala. Progetti in cui la serietà scientifica si combini con
l’interdisciplinarietà e la creatività.
Per fare qualche esempio, nell’ambito della sezione italiana del Club of
Budapest – associazione internazionale per la pace e la coscienza
planetaria, di cui fanno parte illustri scienziati e molti premi nobel per
la pace – avevamo progettato durante la scorsa estate una interessante
iniziativa denominata “Scuola di pace” che prevedeva di invitare in Italia,
a scadenze periodiche, alcune decine di giovani palestinesi e israeliani e
di fargli seguire – vivendo assieme per un mese – un corso volto a
migliorare la comunicazione e la comprensione reciproca e ad apprendere
strumenti e tecniche di mediazione e di risoluzione pacifica dei conflitti.
Questi giovani, una volta tornati in patria, sarebbero stati esempi viventi
del fatto che è possibile convivere pacificamente e avrebbero anche potuto
prestare attivamente la loro opera in vari contesti per facilitare – grazie
a quanto imparato – processi di miglioramento delle relazioni interne.
Numerose associazioni culturali e gruppi di volontariato erano disponibili a
collaborare come pure docenti universitari ed esperti del settore, ma
purtroppo i tragici fatti dell’undici settembre hanno reso impraticabile
questa strada. Se per il momento il progetto “scuola di pace” è costretto
allo stand-by, vi sono comunque vari altri progetti che procedono in quella
stessa direzione, come i numerosi corsi di peace-building, difesa civile
etc. promossi da associazioni pacifiste e ONG in varie parti d’Italia, sia
anche – grazie alla recente riforma – vari corsi universitari come i nuovi
corsi di laurea in “operatore per la pace” e i master in peace-keeping e
peace-building, in diritti umani e azioni umanitarie e in mediazione e
risoluzione pacifica dei conflitti, attivati da alcuni atenei italiani, tra
cui in primissima fila quelli toscani, con ben due corsi di laurea (Firenze
e Pisa) e vari Master (Siena e S.S.S.U.P. S.Anna di Pisa) [7].